Io, raccoglitrice di simboli,
mi scrivo addosso.

lunedì 8 agosto 2011

Mi voglio sfidare.

Oramai tutti i meccanismi malati pre-durante-post abbuffata li ho smascherati e appresi nel dettaglio. (E vorrei ben dire coi miei ventisei anni andati).
Non ho più scuse.

Vedi il destino beffardo!
La mia anima è in patimento da quando l'ho scoperta.
E se ora dovessi disegnarla, mi ritorna la stessa immagine di sempre: una macchia scura accovacciata sul divano a fiori. Ne ricordo ancora il puzzo, le cicatrici e i colori sbiaditi. Lo ricordo come il baule di una bastarda. Come un cassonetto pieno di briciole morte.
Gravida di me stessa, me ne stavo su di un fianco ad osservare le fessure della serranda.
Mi piaceva osservare il movimento delle particelle nella luce. Ricordo che trascorrevo l'insopportabile peso del tempo, nel tentativo di soggiogare quelle particelle. Cercavo di fermarle, di spostarne la direzione o di rubarne una manciata. Pensavo che se le avessi dirottate sulla mia fronte magari avrei iniziato a volare.
Fuori dalla finestra.

Da quando ne ho una, poverina, l'ho sentita in perenne patimento.
Parlo di destino beffardo perché, se già, in tutto il mio passato, (dunque nell'infanzia, nell'adolescenza, fino ad ora nell'attimo in cui sto scrivendo) si è mantenuta sedentaria nell'agonia di un vuoto, richiamo di morte, ancora oggi, quella condizione permane.
E persiste ad esempio sul luogo di lavoro.

Temo di essere stata battezzata al vuoto. Di esserci finita subito, una volta vomitata dall'utero.
Mi viene da ridere convulsamente ripensando alla mia storia: un puzzle composto da sgangherati pezzi incastrati a forza.
Quantomeno negli anni addietro, godevo di una sorta di lasciapassare. Avevo l'autorizzazione per cedere alle false speranze. Me la tenevo ben stretta sotto il piumone.
Non fantasticavo che oggi sarei diventata felice. Non lo speravo. Non la cercavo, neppure nelle tante freccette che partivano dai miei schemi mentali. Mi tagliavo prontamente per tenermi sveglia e basta.
Certamente, non immaginavo neanche lontanamente, che sarei stata tanto disgraziata da portarmi quello stesso vuoto sul posto di lavoro. Lo so che sembra una barzelletta.
Il mio lavoro consiste nello svolgimento del nulla. In una gara di resistenza tra me & me non dichiarata.
Nella pratica svolgo il ruolo di una portinaia in tailleur. Mi occupo di accogliere gli ospiti nuovi e di sorridere ai vecchi. Tutto da una stessa posizione tenuta a freno per dieci lunghe ore. Tutto da una sospensione spazio-temporale. Dalla mia stanzetta satura di particelle di luce. Sottolineo: dieci ore di lavoro senza pausa pranzo e senza potermi spostare dalla postazione, mai. Di cui nella fattispecie, se ne lavoro nel complesso una o due, è già tanto. Non c'è molto da fare qui. In media ricevo 5 ospiti nell’arco di queste dieci lunghissime ore.
L'ideale per una depressa. L'ideale per il proprio senso di soddisfacimento. L'ideale per l'accrescimento dell'autostima.
E nel vuoto restante!?

M’ingozzo di spazzatura.

Come si fa a vincere la bulimia in una condizione del genere? Nella effettiva continuità del vuoto?
Vuoto a casa. Vuoto sul posto di lavoro. Vuoto intorno. Di notte. Di giorno. Nel week-end.
Vuoto dentro.
Vuoto sempre.

Oggi mi voglio sfidare.
Ho deciso che da domani smetterò di portarmi gli spiccioli in reception.
Dovessi spaccare il vetro delle macchinette o fare elemosina alle donne delle pulizie.
E per tutti gli errori commessi, quasi quasi mi viene voglia di restarmene un mese intero in totale assenza di denaro contante.





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